Nell'ambito del ciclo di
seminari dal titolo “Non conformi – tracce per una critica della
normalità”, sabato 25 ottobre si è tenuto a Verona il primo incontro.
Sotto il titolo “La
medicalizzazione (e psichiatrizzazione) della vita”, il dottor
Ricci ci ha accompagnati in un percorso all'insegna del pensiero critico sul tema
della malattia e della normalità, seguendo le tracce di alcuni autori e delle loro rispettive opere.
- Ivan Illich
Il seminario è iniziato
dalle riflessioni di Ivan Illich. La sua tesi principale è che la
medicalizzazione della vita rappresenta la più pericolosa minaccia
alla salute degli individui, da lui nominata “iatrogenensi”.
Questo è infatti l'incipit di “Nemesi medica”: “La
corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute.”
Mentre prima
dell'insorgere dell'istituzione medica, ciascuno provvedeva da solo,
con le conoscenze della comunità di appartenenza, alla gestione del
proprio malessere e della propria malattia, oggi è diventato
impossibile sottrarsi allo sguardo medico, e il rifiuto della cura
viene considerato una forma di devianza, qualcosa che prelude
all'isolamento sociale. E' quindi necessario dividere “sanità” e
“salute” in modo molto netto.
E' evidente d'altra parte
l'effetto totalizzante della diagnosi medica, e soprattutto della
diagnosi psichiatrica: la diagnosi inchioda ciascuno e lo fa
diventare altro da sé, un processo di sdoppiamento in cui si viene
oggettivati dall'occhio medico (e parallelamente auto-oggettivati da
parte di se stessi), in cui si viene espropriati della propria
capacità di soggettivare persino il proprio dolore.
Quanto più le
istituzioni gestiscono la nostra vita in modo diretto e industriale,
tanto più aumenta la mancanza, quanto più aumenta l'offerta, tanto
più ci accorgiamo che l'obiettivo non è più raggiungibile. Il
tutto si riduce a un formidabile sistema di assoggettamento e di
privazione della libertà. Detto ciò, è importante rendersi conto
che siamo tutti immersi in questo sistema e che non possiamo farne a
meno, ma che tuttavia dobbiamo anche criticarlo e sviluppare un
pensiero critico: il soggetto è portato normalmente alla creatività
e alla convivialità (nel senso di condivisione e comunanza),
all'autonomia e alla libertà.
Da ciò consegue il tema
dell'affrontamento del dolore e dell'affrontamento della morte: il
primato della tecnica sottrae all'umanesimo il tema del dolore e
della morte, due questioni sì naturali, ma anche culturali: ogni
gruppo sociale, ogni comunità, ha imparato e sviluppato sistemi di
affrontamento del dolore e della morte peculiari e funzionali, con lo
scopo che la società possa sopravvivere a se stessa.
Diviene importante per
ciascuno recuperare quelle opportunità di senso che la malattia può
rappresentare nella storia di ognuno.
- Georges Canguilhem
Altro autore di
riferimento nella discussione è stato George Canguilhem. Maestro di
Foucault, nella sua opera “Il normale e il patologico” espone una
critica stringente ad entrambi i concetti: continuamente, si entra e
si esce dallo stato patologico, per cui definire lo stato di sano e
di malato diventa impossibile. La normalità fisiologica non
corrisponde allo stato di salute. Esiste una “polarità dinamica”
in cui salute e malattia si confondono continuamente, e il soggetto
malato è contemporaneamente portatore di entrambe le istanze.
Emerge il concetto di
malattia come “errore”, di malattia originata da una casualità
combinatoria, e di come questo cambi profondamente il rapporto con la
malattia e con se stessi.
Inoltre, sottolinea la
questione del bisogno di malattia: “il disturbo che nasce alla
lunga dalla permanenza dello stato normale, la malattia che nasce
dalla privazione di malattie … bisogno di malattia come prova della
sanità … la minaccia della malattia è uno degli elementi che
costituiscono la sanità.”
- Michel Foucault
Secondo Foucault, come
individui, non possiamo sottrarci all'idea che ci sia un “normale”
e un “non normale”, è nelle nostre categorie mentali, noi
dividiamo il mondo in queste due categorie. Questo è un
assoggettamento a cui non sappiamo sottrarci, ma che dobbiamo
perlomeno problematizzare.
- Franco Basaglia
E' in questi temi che
nell'esposizione si è inserito Franco Basaglia: l'utopia non l'ha
solo pensata, ma l'ha fatta diventare pratica. Secondo lui
l'istituzione del manicomio doveva essere distrutta: dovevano essere
messi in crisi i suoi rappresentanti (soprattutto i medici) e la
trasformazione di sé era in questo senso fondamentale per realizzare
il cambiamento. Bisognava mettere tra parentesi la malattia e
ritrovare l'uomo. Il trasformare se stessi mettendosi in crisi,
l'essere imperfetti come fondamento della relazione con l'altro,
esprime anche l'importanza del collettivo. La trasformazione di se
stessi è la minima partenza per trasformare il reale. Basaglia,
inoltre, era convinto che, avviato il processo di superamento dei
manicomi, bisognava contaminare anche gli ospedali normali perché
capiva che la prosecuzione naturale del discorso era quello.
Quale può essere dunque
l'alternativa alla medicalizzazione diffusa? Emerge quindi il
concetto di “clinica del legame sociale”, ossia “assunzione di
una funzione terapeutica versatile adatta a mettersi accanto alla
persona per accompagnarla nella comunità, lavorando sulle relazioni,
sugli scambi, sulla rottura dell'isolamento e sulla inclusione, sulla
negoziazione e sulla verbalizzazione dei conflitti: in definitiva,
sulla crescita del capitale sociale di tutta la comunità.”
(Colucci, “aut-aut” 340).
L'imperfezione suggerita
da Basaglia non è ingenuità né grossolanità, ma il contrario: è
una rinuncia consapevole. L'intento è mettere continuamente a
confronto la società con i propri resti, e riappropriarsi del senso
della propria malattia: i resti diventano risorse della comunità.
- Franca Basaglia
Chi maggiormente si era
occupato di questi temi è stata la moglie di Basaglia, Franca, in
particolare nel suo testo “Salute e malattia”. Franca Basaglia
scriveva: “la malattia può acquistare significati diversi,
diventando una risposta a ciò che la vita non è o non dà.” E
ancora: “per noi, per la nostra cultura, la malattia è morte
perché la vita continua ad essere rappresentata solo dalla salute
assoluta.”
Gli spunti di riflessione conclusivi ci sono giunti dai meno noti Ehrenberg e Rose.
- Alain Ehrenberg
Ehrenberg approfondisce
il tema della depressione per aprire una discussione sulla
psichiatrizzazione della vita. Nel suo libro “La fatica di essere
se stessi” l'autore si interroga sull'espansione della patologia
depressiva negli ultimi anni e in che modo ci può rivelare i
mutamenti dell'individualità dal secolo scorso.
- Nikolas Rose
Rose argomenta nel suo
libro “La politica della vita” come l'investimento sulla
medicalizzazione e sulla psichiatrizzazione non sia solo economico,
ma anche politico, e su quanto sia facile il passaggio dall'aspetto
scientifico a quello politico.La "critica della normalità", il filone conduttore di tutto il ciclo di seminari, può sembrare un concetto antiquato, ma l'interesse nel riproporlo consiste non nel ritorno a una realtà storica e culturale già passata, bensì nello stimolare un rapporto migliore con la storia recente. E per restituire alle storie personali il senso di appartenenza comune, solidale e consapevole.