venerdì 30 maggio 2014

I dannati della metropoli - Andrea Staid

Venerdì 30 maggio, nell’ambito di “Veronetta Ribolle”, III festival delle associazioni culturali di Veronetta, presso la libreria “Libre!” è stato presentato il volume “I dannati della metropoli – Etnografie dei migranti ai confini della legalità” di Andrea Staid, storico e antropologo, editor della casa editrice Eleuthera, autore di articoli su diverse riviste. Ha scritto anche “Gli arditi del popolo” e “Le nostre braccia. Antropologia delle nuove schiavitù”.

“I dannati della metropoli” è costruito secondo una “struttura narrativa con l’intento di accompagnare il lettore nel viaggio”, dice Staidt. E sul metodo della sua ricerca aggiunge che “non esiste una scienza sociale perfetta”, che quello che usa è un “metodo impuro e multidisciplinare”, mescolando nella narrazione l’antropologia, la storia, dati e cartine.
In questo lavoro, Andrea Staid ripercorre il viaggio attraverso le storie dei migranti, un viaggio spesso disperato e lungo anni, fino al possibile esito nei CIE e nelle carceri, e nella marginalità delle città. Città che da sempre sono due città, una legale e l’altra illegale, i cui confini si spostano a seconda delle epoche storiche e delle necessità economiche contingenti.
L’autore ha infatti trascorso periodi a Lampedusa e con i migranti dei CIE, che descrive come “lager di stato”, “galere etniche”, “luoghi di disumanizzazione e tortura”. Luoghi costruiti dallo Stato, in cui “la gestione del legale diventa illegale”. E lo status giuridico di questi migranti si trasforma, dagli ostacoli nel riconoscimento dello status di rifugiato politico, all’impossibilità di usufruire dei diritti di cittadino fino al reato di clandestinità, con alti rischi di arresto e detenzione. Ecco che questi migranti diventano le “non-persone” descritte dal noto sociologo Alessandro Dal Lago. In questa situazione, prosegue Staid, “si crea una nuova schiavitù”, come quella del lavoro in nero. Oppure il migrante può “darsi alla microcriminalità”, quando paradossalmente “la scelta più razionale da uomo economico è quella di delinquere”. Si crea una circostanza per cui “lo stato spinge alla delinquenza a quel bivio in cui il rischio di finire in galera è altissimo”. E addirittura, racconta Staid, “le testimonianze sono che il carcere è molto meglio del CIE, è una scuola sì per imparare a delinquere, ma anche per imparare a capire i propri diritti, fare relazione”. A questo proposito, l’autore riferisce come, secondo i dati, nel centro-nord la maggioranza dei carcerati non è italiano, ma, andando a vedere quali sono i reati più frequenti, le imputazioni sono principalmente per danni alla proprietà (spesso piccoli furti), oltraggio, resistenza, spaccio. Piccoli reati, dunque, le cui dinamiche in realtà vedono svantaggiati i migranti, che, a parità di effrazione, sono più facilmente individuati e additati. E che, quindi, più facilmente rischiano di finire in carcere.
Andrea Staid termina parlando dei due anni trascorsi frequentando il palazzo di via Bligny 42 a Milano, noto come “fortino della droga”, a pochi isolati dal centro e nei pressi della nota università Bocconi. In questo palazzo ha raccolto “racconti di persone che escono dal confine della legalità”. Un luogo in cui si concretizza questo esito delinquenziale, dove “il delinquere non è una rivolta sociale ma un rituale di resistenza”, ma che parallelamente palesa la convivenza esplicita del legale con l’illegale. L’esempio è, appunto, quello dello spaccio: sono i cittadini della città legale che si riforniscono di droga nella città illegale! Tuttavia, il palazzo di via Bligny 42 si rivela anche un laboratorio “non di integrazione, ma di ibridazione”, di coppie miste e cibo etnico condiviso. E’ così che accade il “decostruire dalle piccole cose quotidiane il razzismo istituzionalizzato”.

martedì 20 maggio 2014

Conferenze brasiliane - Franco Basaglia

Il 20 maggio è venuto a trovarci al nostro gruppo di lettura il dott. Alessandro Ricci di Psichiatria Democratica. Con lui abbiamo discusso sulle “Conferenze brasiliane” di Franco Basaglia.

Queste conferenze, che Franco Basaglia tenne a San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte nel 1979, sono la testimonianza di una delle sue ultime occasioni di riflessione pubblica sul significato complessivo dell’impresa della sua vita e ripropongono i temi ancora attuali che avevano portato alle “legge 180”, delle ragioni e dei metodi di chi aveva voluto quella riforma e ne aveva preparato il terreno. Uno spunto per guardare in un’ottica di rinnovamento anche alla psichiatria oggi.

“Il problema invece è che non si sa cosa sia la psichiatria, questo è il problema: che noi dobbiamo ripensare il problema dell’uomo.” Belo Horizonte, 17 novembre 1979

Tra i vari argomenti vi sono il ruolo dello psichiatra come membro attivo nella società e nelle scelte politiche, soprattutto alla luce del fatto che oggi sempre più spesso la psichiatria e la psicologia sono chiamate ad esprimersi su questioni che paiono andare oltre la psicopatologia da libro di testo, più vicine alle questioni legate alle trasformazioni della società e alla crisi economica.

“Noi vogliamo essere psichiatri, ma vogliamo soprattutto essere delle persone impegnate, dei militanti. O meglio, vogliamo trasformare, cambiare il mondo attraverso il nostro specifico, attraverso la miseria dei nostri pazienti che sono parte della miseria del mondo. Quando diciamo no al manicomio, noi diciamo no alla miseria del mondo e ci uniamo a tutte le persone che nel mondo lottano per una situazione di emancipazione.” San Paolo, 19 giugno 1979.

“Dobbiamo essere contro questa società che distrugge la persona e uccide chi non ha i mezzi per difendersi. In un certo senso, viviamo in una società che sembra un manicomio e siamo dentro questo manicomio, internati che lottano per la libertà.” San Paolo, 22 giugno 1979

Alcune delle domande che ci siamo posti: cosa distingue oggi un “caso sociale” da un “caso psichiatrico”? Si può dire che la psichiatria è riuscita nel suo intento di essere parificata alle altre branche della medicina? Se sì, ciò è da considerarsi un successo o un impoverimento? E ancora: qual è oggigiorno il rapporto tra psichiatria e potere? E tra psichiatria e controllo sociale? Di contro, invece, appaiono ormai anacronistici gli aspetti di lotta di classe rievocati nelle Conferenze, che hanno però il valore di riportarci alla cornice storica in cui nasce la riforma basagliana.

“Come la medicina si è edificata su un corpo morto, così la psichiatria si è costruita su una mente morta.” San Paolo, 21 giugno 1979

“Il medico è colui che dà le medicine, ma soprattutto è una persona che può dare un senso alla vita del malato in quanto riesce ad avere una relazione diversa con lui.” San Paolo, 22 giugno 1979

“La medicina deve essere esercitata dal medico come mediatore della relazione tra la società e il malato.” Rio de Janeiro, 29 giugno 1979

Vogliamo invece che la medicina esprima qualcosa che va oltre il corpo, qualcosa che sia espressione del sociale, qualcosa che prenda in considerazione l’organizzazione nella quale viviamo. Io non penso che l’uomo sia fatto esclusivamente di psicologico, o esclusivamente di un corpo biologico. Non credo nemmeno, d’altra parte, che sia fatto solo di sociale. Credo che l’uomo sia il risultato di una integrazione di tutti questi livelli e, prendendo in considerazione tutti questi fattori, noi medici dobbiamo essere allo stesso tempo biologi, psicologi, sociologi. Se non succede questo, saremo sempre dei torturatori dei malati.” Rio de Janeiro, 29 giugno 1979

Abbiamo riflettuto quindi anche sul significato di malattia mentale, se e come è cambiata dall’epoca dei manicomi ad oggi. In questo senso, cosa porta verso la cronicità? Essa è contenuta nella patologia, come “decorso” inevitabile, o è un “artefatto” legato ad un approccio che la favorisce? Ricordando come in manicomio il “domani” della dimissione era un futuro sempre posticipato e di come ancora oggi la malattia mentale evoca prognosi di involuzione e regressione, in che termini si può oggi parlare di guarigione in psichiatria?

“Ma noi medici, che siamo istruiti nelle università per curare le malattie, non sappiamo cos’è la salute, sappiamo solo cos’è la malattia. Ma se vogliamo cambiare veramente le cose dobbiamo incominciare a imparare all’università cosa vuol dire il sociale nella medicina, perché l’uomo non è fatto di corpo – è fatto anche di corpo – ma è fatto di sociale, e nel momento in cui il sociale entra nella medicina il medico non capisce più niente, perché è abituato a pensare che il suo malato sia un corpo malato […].” Belo Horizonte, 21 novembre 1979

E’ qui che si inserisce allora l’importanza del fare. Il dott. Ricci ci ricorda come tutta la rivoluzione in quegli anni era fatta di piccoli gesti quotidiani, che però erano gesti rivoluzionari perché rovesciavano completamente lo schema. Si affermava con forza che la vita materiale è importante, riconducendo la patologia al suo contesto, che è il motivo per cui i nostri Servizi hanno una referenza territoriale. L’idea forte della riforma e di tutta la psichiatria di comunità era che ci fosse il referente territoriale perché i contesti in cui la patologia accade sono rilevanti per farla accadere. E ricollocare la storia in una Storia con la “S” maiuscola è uno dei modi per contrastare la separatezza.

“Allora io propongo l’alternativa seguente: dal pessimismo della ragione all’ottimismo della pratica.” San Paolo, 18 giugno 1979

“La verità sta nella nostra pratica quotidiana, nella rottura dei preconcetti, nel prendere le distanze dal pessimismo della nostra ragione facendoci forza per mettere in atto una pratica ottimista.” San Paolo, 21 giugno 1979

“Io penso invece di essere uno psichiatra perché il mio ruolo è di psichiatra, e attraverso questo ruolo voglio fare la mia battaglia politica. Per me battaglia politica vuol dire battaglia scientifica, perché noi tecnici delle scienze umane dobbiamo edificare una scienza nuova che deve partire dalla ricerca dei bisogni della popolazione.” Belo Horizonte, 17 novembre 1979

mercoledì 7 maggio 2014

Esercitazioni sulla follia. L'approccio dialettico-relazionale in psichiatria. - Graziano Valent

Mercoledì 7 maggio si è tenuto a Verona, presso la libreria "Pagina 12" il terzo ed ultimo incontro degli "Esercizi di Psichiatria Critica". Gli incontri sono stati organizzati da "Associazione inTransito", "Cooperativa Sociale Panta Rei" e "Psichiatria Democratica" come occasione per presentare/discutere tre volumi recenti e con  lo scopo (come espresso nella locandina) di "discutere insieme in modo aperto ed amichevole di quegli aspetti così complessi ma insieme affascinanti che sono la trama del lavoro quotidiano nel campo della salute mentale. La relazione e la presa in carico, il dialogo con la follia, il lavoro di gruppo, la sofferenza e la sua cura, le storie e la Storia."

E’ possibile delineare un modo della cura che sia all'altezza della follia, che per sua natura scardina tutto ciò che è positivo, lineare, logico?
Gli Autori di questo testo, a cura di Graziano Valent, propongono di guardare alle contraddizioni della follia come a figure essenziali dell’umano e di misurarsi nel rapporto terapeutico con chi sfida i confini del senso facendosi guidare dalla dialettica. Dialettica “intesa come teoria del senso, ossia come logica della realtà e insieme del significato”, che nella definizione del filosofo Italo Valent è descritta come “un altro vocabolo greco foriero di grandiosi sviluppi […] dice essenzialmente tre cose: 1) il divincolarsi delle cose l’una dall'altra, l’una contro l’altra, come un dispiegarsi che tutto congiunge e governa; 2) nel vincolo così concepito si realizza tanto l’identità quanto la differenza delle cose; 3) la necessità del divincolante di divincolarsi è tale da impegnare anche se stessa. Tutto ciò chiamiamo anche ‘relazione’.”
Argomenti sui significati della follia e della relazione di cura elaborati in conferenze, lezioni, seminari, conversazioni private. Il pensiero dialettico di Italo Valent si ritrova così in relazione con l’azione rivoluzionaria di Franco Basaglia, in cui l’etica del filosofo e la concreta utopia basagliana si riconoscono nelle sue stesse parole: “Piena realizzazione di un’etica della follia sarebbe il passaggio dalla liberazione dalla follia alla liberazione della follia: cioè il passaggio dalla cura alla condivisione, dalla restrizione e separazione della follia al suo pieno diritto di cittadinanza.”
Prendendo corpo in una pratica territoriale audace e responsabile, l’approccio dialettico-relazionale mostra l’unità di senso-nonsenso, ragione-sragione, identità-differenza, soggetto-oggetto, parte-tutto, e insieme indica un modo di accogliere e curare il folle nel segno della possibilità.